Le Corbusier, Maniére de penser l’urbanisme
Ed. Gonthier, Parigi 1963
(ristampa riveduta della prima edizione, 1946)
Trad.it. Economica Laterza 1997
Con una violenta rottura, unica negli annali della storia, tutta la vita sociale dell’Occidente si è staccata in questi ultimi tre quarti di secolo dalla sua cornice relativamente tradizionale e ben armonizzata con la geografia.
L’esplosivo che ha prodotto questa rottura è costituito dall’improvviso irrompere – in una vita fino allora scandita dal passo del cavallo – dalla velocità nella produzione e nei trasporti delle persone e delle cose. Al suo apparire, le grandi città esplodono o si congestionano, la campagna si spopola, le province sono violate nella loro intimità. I due insediamenti umani tradizionali, la città e il villaggio, attraversano una crisi drammatica. I centri abitati si estendono senza forma, indefinitamente. La città come organismo urbano coerente scompare; il villaggio, già organismo rurale coerente, mostra i sintomi di una decadenza sempre più rapida: messo bruscamente a contatto con la grande città, perde il suo equilibrio e viene abbandonato.
Si direbbe che tutta la società, ebbra di movimento e di velocità, si sia messa senza accorgersene a girare su se stessa, come un aeroplano che si avvita in un banco di nebbia sempre più fitta. Da una simile ebbrezza non si viene fuori che con la catastrofe, schiantandosi al suolo.
Le città di scambio – piattaforme girevoli, luoghi d’accentramento e di ridistribuzione – sono situate nei punti d’incrocio delle grandi vie di transito. Esse occupano luoghi predestinati da sempre, poiché le strade seguono nel thalweg (linea di massima profondità dell’alveo di un fiume, punti di quota minima nelle sezioni fluviali) la pendenza dei corsi d’acqua. Inizialmente furono strade pedonali, poi strade per i cavalli e gli asini; il canale, la ferrovia, come la “strada regia” e le moderne autostrade, seguono più o meno lo stesso tracciato. In alcuni punti, anch’essi fatidici, s’incrociano due o più strade: punti rilevanti, predeterminati, luoghi di concentrazione e d’irradiazione. In questi incroci sono sorte le città di scambio: paesi, capoluoghi, città, capitali. In questi luoghi di transito si stabiliscono i mercanti con i loro banchieri; coloro che commerciano in idee, i dotti e i maestri; e coloro che esprimono la vita là dove essa si manifesta più intensa, gli artisti. Anche l’autorità, com’è ovvio, si insedia in un luogo concentrico-radiale.
Le velocità meccaniche hanno dato via libera all’industria, e questa si è alacremente e sconsideratamente installata in tali località preesistenti, perché lì era possibile trovare alloggi, approvvigionamenti e mano d’opera, insieme con le molteplici risorse sociali che sempre offre un agglomerato umano. La gigantesca inondazione della prima era industriale ha prodotto in queste città l’attuale congestione.
La città concentrico-radiale industriale ha fatto fallimento. Essa tormenta i suoi abitanti con la frenetica circolazione meccanica che impone quotidianamente, e col caotico groviglio di luoghi di lavoro e luoghi d’abitazione, in cerchie successive e soffocanti, concatenate tra loro con ingranaggi, di stabilimenti industriali e di quartieri d’affitto, di fabbriche e di quartieri di periferia, di una periferia sempre più estesa e lontana. La popolazione è aumentata: quattro milioni e mezzo di abitanti a Parigi, undici a Londra, da otto a dieci a New York. Le reti dei trasporti pubblici – metropolitana, autobus, ferrovie vicinali, strade – sono soggette a continuo rinnovamento perché sia garantito il quotidiano afflusso delle masse al centro della città; ogni cosa viene rettificata, coordinata, migliorata ogni giorno, ma tutto a spese dell’uomo e per la sua infelicità. La sua giornata solare di ventiquattr’ore non ha dolcezze da offrirgli, ed egli vive in modo artificiale, precario. Le condizioni di natura sono state abolite. La moderna città industriale concentrico-radiale è un cancro che prospera a dovere.
Incasellamento e disprezzo dell’uomo caratterizzano le nostre mediocri scatole d’affitto, mal isolate acusticamente, affaccianti sul tumulto della strada e sul suo terrore meccanico, mortale nemico dei bambini. Molti credono di poter compensare il logorio dei nervi e i mille disagi della vita cittadina andando ad abitare in casette di periferia. Questo bisogno di evasione è legittimo: anzi, il rifiuto delle presenti condizioni di vita nelle città è all’origine di una dottrina condivisa da tutti i grandi architetti moderni. Ma in che cosa si traduce, nei fatti, questa evasione? Nell’anarchica proliferazione (ah, la pseudo-evasione!) di sobborghi che corrodono la natura e degradano le belle comunità rurali, nelle spese vertiginose (pubblici trasporti, complicata rete stradale, condutture, comunicazioni...) che il malsano rigonfiamento delle nostre città comporta per lo Stato. Questo enorme spreco – la disorganizzazione del fenomeno urbano – costituisce uno degli oneri più schiaccianti imposti alla società moderna. Il 50% del frutto del lavoro collettivo è prelevato dallo Stato per pagare questo sperpero. Un’utilizzazione razionale del territorio consentirebbe alla popolazione di lavorare la metà.
Evidentemente la casetta (“la mia casetta”, “il mio nido”) con accanto l’albero amico e il frutteto o l’orticello, sta nel cuore e nella mente della massa: e ciò permette agli uomini d’affari di realizzare lauti profitti lottizzando i terreni, fabbricando porte e finestre, costruendo le strade e le loro condutture, i tram, gli autobus, le metropolitane, le automobili, le biciclette, le motociclette necessarie per l’attuazione del bel sogno virgiliano. La casetta unifamiliare soffoca la donna di casa sotto il peso delle cure domestiche e schiaccia le finanze comunali con gli oneri d’esercizio.
Al suo attivo rimane tuttavia il concetto, valido e persino sacro, dell’unità della famiglia che tenta di rimettersi ancora nelle “condizioni di natura”.
Queste condizioni sono scritte su una delle Tavole della legge dell’urbanistica contemporanea, i cui tre articoli sono l’aria pura, il sole e il verde. Ma l’altra Tavola ci ricorda che il ciclo solare è breve, e che le sue 24 ore governano fatalmente le attività dell’uomo, stabilendo il limite dei suoi spostamenti. Questa norma deve costituire il criterio di ogni iniziativa urbanistica. I fautori della città-giardino, i responsabili della disarticolazione delle città hanno proclamato a gran voce: a ciascuno la sua casetta, il suo piccolo giardino, la sua garanzia di libertà. Menzogna e abuso di fiducia! Il giorno ha soltanto 24 ore, che non bastano. “Contro la grande dispersione generata dal panico, occorre richiamarsi ad una legge naturale: gli uomini tendono a raggrupparsi per aiutarsi, difendersi e fare economia dei loro sforzi. Se, come oggi accade, essi si sparpagliano nelle lottizzazioni, ciò significa soltanto che la città è malata, ostile e non assolve più i propri compiti.
Come conciliare questi due postulati? Come porre fine ad uno scandaloso spreco di tempo, senza rinunciare a “includere la natura nel contratto d’affitto”? Come evitare che le nostre città si dilatino e si diluiscano, perdendo la propria forma e la propria anima? È il complesso di domande a cui ci proponiamo di dare una risposta in questo libro.
mercoledì 28 gennaio 2009
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Un po' troppo logorroico... vero?! Roberto
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